di Giancarlo Strocchia
Il “posto” di Carmela

Carmela Regina ha lasciato il suo posto in un asilo del modenese per lavorare in terapia intensiva: “l’ospedale è un po’ una scuola di vita, rende più evidenti i valori e le situazioni per cui è importante impegnarsi. Oggi mi sento gratificata e arricchita a livello umano”.
L’emergenza COVID ha profondamente sconvolto la vita di migliaia di persone, soprattutto in peggio purtroppo, ma ha anche incoraggiato dei cambiamenti di rotta inaspettati e, per certi versi, sorprendenti.
Carmela Regina ha 52 anni e lavora in Manutencoop da quando ne aveva 34. Vive a Limidi di Soliera, nel modenese, ha un marito e due figli, una ragazza di 32 anni e un ragazzo di 24, e svolge da sempre il suo lavoro in ambito scolastico. “Soprattutto istituti di scuola materna - spiega - e sempre con estrema soddisfazione, perché il lavoro al fianco di tanti bambini e delle loro famiglie è gratificante”. Una situazione apparentemente stabile che però subisce un’imprevista virata a marzo del 2020, subito dopo l’avvio del primo periodo di lockdown nazionale, quando la sanità del nostro Paese viene drammaticamente travolta dall’ondata di contagi da Covid-19.
Carmela ci racconti cosa è successo in quel
periodo?
All’epoca lavoravo per le pulizie e l’igienizzazione
al nido Girotondo di Rovereto sul Secchia, in provincia
di Modena. Come detto, un lavoro che mi è
sempre piaciuto molto. A marzo la mia responsabile
mi propone di andare a lavorare presso il Policlinico
di Modena, con l’emergenza sanitaria in corso. Un
cambio sicuramente non banale, considerando cosa
stava accadendo in ambito ospedaliero praticamente
in tutta Italia. Decido di accettare. Svolgo con una
mia collega un necessario periodo di training ma
non vengo destinata subito ad un reparto Covid,
cosa che avviene successivamente. Un altro cambiamento,
anche questo non senza timori e qualche
perplessità. Ma progressivamente va sviluppandosi
dentro di me la percezione che quello poteva e doveva
essere il mio posto.
Accetti subito?
Beh, in cuor mio percepivo che avrei fatto bene ad
accettare, ma ho deciso di prendermi del tempo per
rifletterci e parlarne con la mia famiglia. Da quel
momento loro sono diventati i miei più fedeli alleati
in questa avventura, non facendomi mai mancare
il loro appoggio. Confesso che razionalmente avrei
forse desistito, ma sono stati il cuore e il sentimento
di solidarietà verso la sofferenza di tante persone a
guidare la mia scelta. E così, abbandonata ogni perplessità,
è iniziata la mia seconda vita professionale.
Com’è stato il primo impatto?
Complesso, non tanto per le procedure da seguire
ma piuttosto per le condizioni dei malati ricoverati
in quel reparto e in quello di terapia sub-intensiva
dove svolgevamo il nostro lavoro. Non so sinceramente
chi ha dato a me e alla mia collega di Carpi,
con cui ho condiviso i turni di lavoro, tutta la forza di
non cedere mai allo sconforto. Come si sa, i pazienti
ricoverati per Covid vivono in rigoroso isolamento,
e le uniche persone che vedono sono i sanitari e gli
operatori dell’igienizzazione, come noi. E a noi spesso
si rivolgevano per alcune cortesie, come ricaricare
i telefoni cellulari o rimboccare meglio le coperte.
Piccole attenzioni che però in quel frangente assumono
un significato e un valore altissimo.
Come eravate organizzate al lavoro?
Eravamo impegnate su due turni, dalle 6 alle 13 o
dalle 13,30 alle 20, lavorando sempre in coppia su
14 stanze, ognuna con due pazienti. Prima ovviamente
ci sottoponevamo alla vestizione per proteggerci
da un eventuale contagio. Eravamo comunque
autorizzate ad entrare nelle stanze per l’igienizzazione
anche nel caso in cui fossero presenti i sanitari.
Ma la parte più coinvolgente riguardava il rapporto
con i pazienti. Nonostante le condizioni non consentissero
la prossimità e un rapporto più stretto, la relazione
di empatia che si creava anche solo attraverso
gli sguardi diventava di giorno in giorno più profonda.
Eravamo perfettamente consapevoli che per quelle persone noi rappresentassimo uno dei pochi
legami con il mondo esterno ed è facile immaginare
quanta tristezza producesse la scomparsa, purtroppo
non infrequente, di alcuni pazienti.
Cosa è successo dopo quel primo periodo?
A luglio 2020 la mia responsabile ci ha richiamate
per lavorare nel nido, a Carpi, una volta che le scuole
hanno riavviato la propria attività. Ho lavorato nell’Istituto
Girotondo per molti anni e la mia dedizione è
stata sempre totale e appagante. A settembre ho ripreso
quindi la mia occupazione all’asilo e sono stata
molto contenta di rivedere i miei bimbi e le colleghe,
ma l’esperienza in ospedale mi aveva fatalmente segnata
e sentivo che il mio posto era lì. Stavolta, se
avessi chiesto di tornare in ospedale, la mia scelta
sarebbe stata definitiva, ma sentivo di non avere alternativa.
Ho fatto così richiesta all’azienda di poter
andare nuovamente a lavorare nel Policlinico di Modena
e così, dal 31 ottobre, sono rientrata in quello
stesso reparto, e oggi sono sicura che sia stata la
scelta migliore per me.
Cosa è cambiato dal primo periodo ad adesso?
Hai notato più sicurezza da parte dei medici?
Premesso che i sanitari sono stati eccezionali sin da
subito, anche quando del virus si sapeva molto poco,
ho notato che durante questa seconda ondata i medici
sanno meglio come intervenire, hanno maggiore
consapevolezza dell’evoluzione della malattia, e anche
l’organizzazione del mio lavoro è un po’ diversa
rispetto al primo periodo.
Hai mai provato timore?
Certo, soprattutto i primi giorni, ma poi via via che
passava il tempo e acquisivo più dimestichezza con
il lavoro il timore si è ridimensionato. Ho compreso
abbastanza presto che occorresse farsi coraggio e
non farsi sopraffare dalla paura. E poi, come detto,
c’è sempre stata la mia famiglia a sostenermi. Ovviamente,
ho sempre osservato molte cautele per proteggere
me e loro. Rientrando in casa, ancora oggi,
vado subito a fare una doccia, mantenendo separati
i miei abiti da tutto il resto.
Come ti ha cambiato questa esperienza?
Mi ha sicuramente aiutato ad attribuire valore a molte
cose che prima davo per scontate, come il tempo,
gli affetti, la famiglia e le relazioni. L’ospedale è un
po’ una scuola di vita, rende più evidenti i valori e le
situazioni per cui è importate impegnarsi. Oggi mi
sento gratificata e arricchita a livello umano. Non
che lavorare con i bambini non fosse bellissimo ma
oggi so che il mio posto è in ospedale. Quest’anno
poi ho avuto l’occasione di essere in reparto anche
per la vigilia di Natale e il giorno dopo, un momento
di grande intensità emotiva oltre che professionale.
E voglio sottolineare anche il clima di collaborazione
e di sostegno che vivo quotidianamente insieme ai
colleghi e alle colleghe che lavorano nel reparto di
malattie infettive del Policlinico, tutti fantastici, così
come le OSS (operatrici socio sanitarie), giovani ed
entusiaste del proprio lavoro che svolgono con dolcezza
e tanta pazienza.
Cosa ti auguri per il futuro?
Ovviamente che questo periodo così drammatico e
complicato possa terminare, che i pazienti possano
superare la malattia senza conseguenze e che possiamo
tornare ad abbracciarci molto presto. Il vaccino
ci aiuterà, ne sono sicura. Farlo è un gesto di responsabilità
collettiva e nessuno, a mio parere, dovrà
sottrarsi quando arriverà il proprio turno.
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