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Sei in: webAmbiente / numero 2 - 2019 / 45 anni di grande passione

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45 anni di grande passione

Esattamente il 7 maggio 1974 Lisa Cacciari, storica e inossidabile responsabile della segreteria di presidenza e, più recentemente, deux ex machina di tutte le sedi del Gruppo, faceva il suo ingresso in Manutencoop. 45 anni dopo, Rekeep ha voluto festeggiarla affidando allo scrittore Maurizio Garuti il racconto della sua storia in azienda. La storia di una vita lavorativa che è anche larga parte della vita del nostro Gruppo. Buon anniversario, Lisetta!

LISETTA CACCIARI
di Maurizio Garuti

Sono la Lisetta, mi conoscete tutti. Quarantacinque anni con la stessa maglia sono qualcosa. Tutto cominciò con un colloquio, tre o quattro domandine, e una porta che s’è aperta: “Puoi venire da lunedì.”
Dicono che chi ben comincia è a metà dell’opera.
Io aggiungerei che cominci bene se trovi un maestro.
Uno che ti prende per mano e ti guida, ti insegna, ti trasmette il senso del tuo lavoro.
Io ho avuto questa fortuna. Il mio maestro è stato Cremonini Anselmo. Era il cassiere. Un maestro severo. Anche burbero. Ma tenero come il pane sotto la scorza dura.

Il primo giorno mi ha dato tre biro: una rossa, una blu, una nera. “Non perderle, se ne perdi una, la paghi.” Idem per la matita, la gomma, il temperino. “Trattali con rispetto, come se fossero tuoi.”
Quando però mi ha raccomandato di rivoltare il rullino della calcolatrice e di rimontarlo, ho sbuffato: “Ci vogliono almeno due ore a rimettere su un rullino usato.”
“Lo fai a casa.”
“Ma dai, Cremonini, lo compro io un rotolino nuovo.”
“No te rivolti il tuo rotolino e fai poche storie. Impara a non sprecare.”
Questo qui è un po’ matto, ho pensato.
Ma mi sono adeguata. Quando il rotolino era finito, lo portavo a casa, e con due legnetti, pian pianino, la sera, lo rivoltavo. E il giorno dopo lo rimontavo sulla calcolatrice. Due fatti zanetti!
Cosa volevi dirgli? Lui portava a casa i suoi.

Arrivava alle 7 e mezza, Cremonini, e andava a casa quando aveva finito. Al termine della giornata la sua scrivania era perfettamente sgombra. Così ho imparato a fare anche con la mia.
Oh, pesante era pesante, Cremonini! Soffiavo. Ci litigavo sette volte al giorno. Ma aveva quasi sempre ragione.
Duro, inflessibile. Un tedesco. No, tedesco no. S’era sparato a una gamba per non fare la guerra coi tedeschi.
Aveva preferito restare tutta la vita con una gamba dritta, piuttosto che fare la guerra.

Così era Cremonini, il mio capo. Anche senza i gradi gerarchici, tutti riconoscevano la sua autorità. Era l’autorità di un maestro. E i maestri bisogna sopportarli.
Il nostro ufficio faceva da banca. E tutti andavamo da lui a fare i prelievi. Ti presentavi col tuo libretto di risparmio: “Cremonini, vorrei prelevare centomila lire...”
“Perché? Cosa devi fare?”
“Sabato vado al mare.”
“È lunedì. Vieni venerdì sera.”
“Ma io li vorrei adesso i soldi...”
“No, adesso non te li do, se no poi li spendi...”
Ah, sì, era pesante Anselmo. Ma anch’io sono pesante, dite la verità. Non negatelo che a volte fate fatica a sopportarmi. Oi, cosa volete, sono venuta su alla scuola di Cremonini.

Io gli uffici li ho fatti tutti in questi quarantacinque anni.
Dove mi dicevano di andare, io andavo. Ero all’Igiene quando passammo in via Pasubio. Ci trasferimmo mentre erano ancora in corso dei lavori di ristrutturazione alla nuova sede. Successe che i ladri di notte rubarono un po’ di materiali, roba da poco: martelli, chiodi, una cazzuola...
Però ci sentimmo feriti da quel furto. Quasi come se fossero venuti a rubare in casa nostra. E ci fu una reazione spontanea.
“Facciamo la vigilanza notturna!” fu questa la risposta. Qualcuno stilò una lista. Si stabilirono i turni di guardia. Cinque o sei colleghi per ogni turno dalle sei del pomeriggio fino alle sei della mattina. Tutto lavoro volontario, non ce l’aveva chiesto l’azienda. Che ci pagava un lavoro solo, mica due.
Oh, me lo ricordo bene. Un pomeriggio avevo un sonno, un sonno, che mi addormentai sulla scrivania. Di giorno si ciondolava per la stanchezza. Ma tutti facevamo volentieri quel piccolo sacrificio.
Oi, sacrificio...
Veniva quello con le crescentine. Quella con una pentola di tortellini. Un altro portava le carte. Eh, ci vai anche te stanotte? Aspetta bene che vengo anch’io.
Insomma ogni sera ci radunavamo sempre in una cinquantina.
Che poi se venivano i ladri, ci portavano via anche la betoniera col calcestruzzo, mica solo quattro chiodi.
Però intanto ci conoscevamo. Fra noi cresceva uno spirito di comunità, l’azienda la sentivamo sempre più una cosa nostra. Io credo che se siamo diventati quello che siamo, un po’ si deve anche a situazioni come queste.

C’è un altro episodio che vi voglio raccontare. Avvenne qualche anno dopo. Manutencoop vinse l’appalto per le pulizie alla sede Inps di Bologna. Una bellissima vittoria, ma che ci trovò impreparati. In quattro e quattr’otto dovemmo far fronte alle pulizie di sei piani di uffici. Le nostre donne e i nostri uomini erano tutti impegnati.
Il personale dell’azienda che aveva perso la concessione rifiutò di venire con noi, forse perché ci consideravano dei poveri peones. Ci chiamavamo ancora Cooperativa Manovalanza Ferroviaria, pensate quanti anni luce sono passati...
E dunque eravamo in braghe di tela. “Oh, ragazzi, qui bisogna che ce la sgavagniamo noi!” – ci siamo detti. E così noi degli uffici ci siamo messi agli ordini di una brava caposquadra, Milena Rimondini: c’erano Francesco Bottino, Enzo Scardovi, diversi altri. Alle sei del pomeriggio, via il golfino, via la cravatta, tutti in divisa da lavoro, tutti all’opera! E così andammo avanti per più di un mese, finché l’azienda non ebbe ingaggiato il personale necessario.
Me la Milena mi mandava sempre a pulire i gabinetti. “Perché sempre me a fare i cessi?”
“Perché te sei precisina e li sguri bene...”
Ah, va pur là.
Una sera, finito il mio turno di lavoro, mi metto il mio bel grembiule tipo bidella; ho gli zoccoli, lo spazzone, il secchio con il vim e i detersivi, e sono lì che aspetto l’ascensore.
L’ascensore arriva, si apre la portiera, esce una signora benvestita. È una dell’Inps, che ha appena finito la sua giornata.
Mi fa: “Lei dove va?”
“Vado su al sesto piano.”
Mi squadra e sibila: “L’ascensore è solo per gli impiegati;
le donne delle pulizie vanno a piedi.”
“Ah, va bene...”
Aspetto che la tipa se ne vada, e poi entro in ascensore e salgo al sesto piano.
Prima però m’informo dal portiere, che ha assistito alla scena.
“Chi è quella là?”
“È la capa del terzo piano.”
“Bene, grazie.”
La mattina dopo mi tiro tutta elegantina: riccioli rossi, gonna a quadrettini, giacchino di pelle blu, fighetta da matti. Scarpina con tacchettino, la borsina in tinta. Mio babbo quando mi vede uscire mi fa: “Ben ma dove vai oggi, a ballare?”
“Te lo spiego poi stasera.”
La mia meta è un’altra. È il palazzone dell’Inps. Arrivo.
Salgo al terzo piano, entro. Ci sono tante scrivanie di legno, disposte su tre file, come i banchi a scuola. E in fondo, seduta a una specie di cattedra, c’è lei, la capa del terzo piano.
Dalla soglia, alzo un dito: “Posso?” E intanto mi avvicino.
Lei è sorpresa.
Le sono davanti: “Mi riconosce? Posso prendere l’ascensore adesso, dottoressa?”
Lei comincia a realizzare.
E io: “Ieri sera ero qui con la divisa delle pulizie e lei mi ha proibito di prendere l’ascensore. Sono venuto a dirle che lei ha mancato di rispetto non tanto a me, ma a tutti quelli che fanno un lavoro più umile del suo. Mi scusi, ma lei è una gran maleducata e una cafona.”
È rimasta a bocca aperta; non ha detto una parola, stordita. Ho girato le spalle e me ne sono andata. Un giovane sottoposto, con la punta dell’indice si è slargato l’occhio con una smorfia di approvazione. La sera ho raccontato al mio babbo dov
’ero andata, e cos’ero andata a fare.
Mi ha risposto: “Se me lo dicevi, venivo anch’io.”

Oh, voi che siete giovani, che avete appena cominciato la vostra vita lavorativa, non crediate che questi 45 anni siano stati tutti da ridere.
Oh, lavorare stanca!
A volte si soffre, si sta anche male.
Anch’io ho avuto un periodo buio. Per me – che il lunedì è il più bel giorno della settimana – c’è stato un tempo che piangevo tutte le mattine.
Mi avevano messo alle politiche sociali, a lavorare con un responsabile che era uno zero assoluto.
Lavorare? Tutto il giorno aspettavo che l’orologio facesse il suo giro. Per me, stare con le mani in mano è la tortura più atroce che puoi infliggermi.
Ero disperata. Stavo già maturando l’idea di andarmene, di cambiare lavoro. Non avevo più fiducia in niente e in nessuno.
Arrivò Levorato, si era nel 1984. Una mattina passò da noi nei nostri uffici per un consiglio di amministrazione. Milena Rimondini mi disse: “Quello lì è il nuovo presidente.” Indossava una maglietta polo, un paio di jeans, i capelli lunghi sulle spalle. Un tipo molto diverso da quello di prima, Mario Bortolotti, che era largo, pelato, e sembrava uno del politburo sovietico.
Guardo il nuovo presidente mentre passa, un po’ scettica, e faccio: “Be’, almeno questo è giovane.”
Ma ci credo poco. Non mi aspetto niente di nuovo.
E infatti non succede niente. Ha altre gatte da pelare.
Poi un giorno mi chiama. Vado da lui, mi dice che vuole rafforzare la segreteria di presidenza.
Io non lo conosco ancora. Prendo una seggiola, mi siedo in faccia a lui e gli faccio: “Senti mo, Levorato, io non voglio portarmi da casa un mazzo di carte e venire qui a farmi dei gran solitari...”
Passiamo subito al tu, gli espongo il quadro della situazione. Mi ascolta, ci intendiamo, mi dà fiducia.
Prima cosa: riordino armadi, archivi; bonifico cassetti, faldoni, carpette. Io sono nemica giurata del disordine, dell’approssimazione. Se le cose sono al suo posto nei cassetti, sono al suo posto anche nella testa. [lascia l’errore]

Poi la storia la sapete tutti. Parte un nuovo ciclo di Manutencoop.
Anno dopo anno, Levorato guida l’ascesa dell’azienda. Da Bologna ci espandiamo in tutta Italia.
La barca va, io sono ai remi, mi piace remare spalla a spalla con tutti voi, chiedo solo di remare per la barca comune. A fare la rotta c’è il capitano, io metto a disposizione la memoria storica della navigazione e dei naviganti.
Al massimo suggerisco qualche colpetto di barra se la nave s’inclina, se qualcuno cade in mare.
Cosa volete, io vi conosco tutti. E so nel profondo del cuore che siamo tutti preziosi. Per quel po’ che posso, cerco di fare in modo che a bordo siamo uniti, ognuno al suo posto, senza che nessuno debba rinunciare a sé stesso. E intanto mi occupo della cancelleria, degli sprechi, della sedi, degli eventi, dell’assemblea di bilancio, eccetera eccetera.

Sono venuta su alla scuola di Cremonini, e quello che ho imparato è quello che faccio, e che adesso insegno. Perché, ditemi, cosa resta di noi se non trasmettiamo la nostra esperienza, i nostri valori?
Il capitale umano, alla fine, è la nostra forza, siamo noi. Siamo noi donne e uomini, con il nostro spirito, le nostre speranze. Con le nostre provenienze dai quattro cantoni del pianeta. Con la nostra dignità, con la nostra fame di riscatto.

Il nocciolo profondo è qui, è questo il patrimonio.
Noi che anche nelle nostre facce, nei tratti dei nostri visi, abbiamo i segni di un mondo difficile, di una convivenza da cercare, di muri e frontiere da abbattere.
Naturalmente ci sono numeri e grafici, ci sono i fatturati, la borsa (togliere) , che parlano di noi.
Ma io preferisco le storie vere, le storie delle persone.
Come quella della Mimoza, un’operaia albanese, che qui fra di noi è cresciuta professionalmente. È diventata caposquadra, ha trovato il suo posto nel lavoro e nella vita. Non so quale sia la storia passata di Mimoza, non so se anche lei sia arrivata dal mare insieme a tanti altri in cerca di speranza e di futuro.

So che un giorno ha ottenuto la cittadinanza italiana. E per festeggiarla, ha fatto una torta a forma di cuore, con i colori della bandiera italiana. E quel giorno, con quella torta, è venuta al lavoro. Ed è andata dal presidente.
Quel giorno nel suo ufficio eravamo in tre o quattro con Levorato e la Mimoza. Non abbiamo fatto nessuna cerimonia speciale intorno a quella torta tricolore che coronava la lunga odissea della nostra collega. Ma eravamo commossi come bambini.

Eravamo tutti lì, con gli occhi lucidi.
Ditemi voi, che altro chiedere alla vita?
Grazie a tutti, vi saluto.

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