45 anni di grande passione
Esattamente il 7 maggio 1974 Lisa Cacciari, storica e inossidabile responsabile della segreteria di presidenza e, più recentemente, deux ex machina di tutte le sedi del Gruppo, faceva il suo ingresso in Manutencoop. 45 anni dopo, Rekeep ha voluto festeggiarla affidando allo scrittore Maurizio Garuti il racconto della sua storia in azienda. La storia di una vita lavorativa che è anche larga parte della vita del nostro Gruppo. Buon anniversario, Lisetta!
LISETTA CACCIARI
di Maurizio Garuti
Sono la Lisetta, mi conoscete tutti. Quarantacinque anni
con la stessa maglia sono qualcosa. Tutto cominciò con
un colloquio, tre o quattro domandine, e una porta che
s’è aperta: “Puoi venire da lunedì.”
Dicono che chi ben comincia è a metà dell’opera.
Io aggiungerei che cominci bene se trovi un maestro.
Uno che ti prende per mano e ti guida, ti insegna, ti
trasmette il senso del tuo lavoro.
Io ho avuto questa fortuna. Il mio maestro è stato Cremonini
Anselmo. Era il cassiere. Un maestro severo. Anche
burbero. Ma tenero come il pane sotto la scorza
dura.
Il primo giorno mi ha dato tre biro: una rossa, una blu,
una nera. “Non perderle, se ne perdi una, la paghi.”
Idem per la matita, la gomma, il temperino. “Trattali con
rispetto, come se fossero tuoi.”
Quando però mi ha raccomandato di rivoltare il rullino
della calcolatrice e di rimontarlo, ho sbuffato: “Ci vogliono
almeno due ore a rimettere su un rullino usato.”
“Lo fai a casa.”
“Ma dai, Cremonini, lo compro io un rotolino nuovo.”
“No te rivolti il tuo rotolino e fai poche storie. Impara a
non sprecare.”
Questo qui è un po’ matto, ho pensato.
Ma mi sono adeguata. Quando il rotolino era finito, lo
portavo a casa, e con due legnetti, pian pianino, la sera,
lo rivoltavo. E il giorno dopo lo rimontavo sulla calcolatrice.
Due fatti zanetti!
Cosa volevi dirgli? Lui portava a casa i suoi.
Arrivava alle 7 e mezza, Cremonini, e andava a casa
quando aveva finito. Al termine della giornata la sua
scrivania era perfettamente sgombra. Così ho imparato
a fare anche con la mia.
Oh, pesante era pesante, Cremonini! Soffiavo. Ci litigavo
sette volte al giorno. Ma aveva quasi sempre ragione.
Duro, inflessibile. Un tedesco. No, tedesco no. S’era sparato
a una gamba per non fare la guerra coi tedeschi.
Aveva preferito restare tutta la vita con una gamba dritta,
piuttosto che fare la guerra.
Così era Cremonini, il mio capo. Anche senza i gradi gerarchici,
tutti riconoscevano la sua autorità. Era l’autorità
di un maestro. E i maestri bisogna sopportarli.
Il nostro ufficio faceva da banca. E tutti andavamo da lui
a fare i prelievi. Ti presentavi col tuo libretto di risparmio:
“Cremonini, vorrei prelevare centomila lire...”
“Perché? Cosa devi fare?”
“Sabato vado al mare.”
“È lunedì. Vieni venerdì sera.”
“Ma io li vorrei adesso i soldi...”
“No, adesso non te li do, se no poi li spendi...”
Ah, sì, era pesante Anselmo. Ma anch’io sono pesante,
dite la verità. Non negatelo che a volte fate fatica a
sopportarmi. Oi, cosa volete, sono venuta su alla scuola
di Cremonini.
Io gli uffici li ho fatti tutti in questi quarantacinque anni.
Dove mi dicevano di andare, io andavo. Ero all’Igiene
quando passammo in via Pasubio. Ci trasferimmo mentre
erano ancora in corso dei lavori di ristrutturazione
alla nuova sede. Successe che i ladri di notte rubarono
un po’ di materiali, roba da poco: martelli, chiodi, una
cazzuola...
Però ci sentimmo feriti da quel furto. Quasi come se fossero
venuti a rubare in casa nostra. E ci fu una reazione
spontanea.
“Facciamo la vigilanza notturna!” fu questa la risposta.
Qualcuno stilò una lista. Si stabilirono i turni di guardia.
Cinque o sei colleghi per ogni turno dalle sei del pomeriggio
fino alle sei della mattina. Tutto lavoro volontario,
non ce l’aveva chiesto l’azienda. Che ci pagava un lavoro
solo, mica due.
Oh, me lo ricordo bene. Un pomeriggio avevo un sonno,
un sonno, che mi addormentai sulla scrivania. Di giorno
si ciondolava per la stanchezza. Ma tutti facevamo volentieri
quel piccolo sacrificio.
Oi, sacrificio...
Veniva quello con le crescentine. Quella con una pentola
di tortellini. Un altro portava le carte. Eh, ci vai anche te
stanotte? Aspetta bene che vengo anch’io.
Insomma ogni sera ci radunavamo sempre in una cinquantina.
Che poi se venivano i ladri, ci portavano via
anche la betoniera col calcestruzzo, mica solo quattro
chiodi.
Però intanto ci conoscevamo. Fra noi cresceva uno spirito
di comunità, l’azienda la sentivamo sempre più una
cosa nostra. Io credo che se siamo diventati quello che
siamo, un po’ si deve anche a situazioni come queste.
C’è un altro episodio che vi voglio raccontare. Avvenne
qualche anno dopo. Manutencoop vinse l’appalto per
le pulizie alla sede Inps di Bologna. Una bellissima vittoria,
ma che ci trovò impreparati. In quattro e quattr’otto
dovemmo far fronte alle pulizie di sei piani di uffici. Le
nostre donne e i nostri uomini erano tutti impegnati.
Il personale dell’azienda che aveva perso la concessione
rifiutò di venire con noi, forse perché ci consideravano
dei poveri peones. Ci chiamavamo ancora Cooperativa
Manovalanza Ferroviaria, pensate quanti anni luce sono
passati...
E dunque eravamo in braghe di tela. “Oh, ragazzi, qui
bisogna che ce la sgavagniamo noi!” – ci siamo detti.
E così noi degli uffici ci siamo messi agli ordini di una
brava caposquadra, Milena Rimondini: c’erano Francesco
Bottino, Enzo Scardovi, diversi altri. Alle sei del
pomeriggio, via il golfino, via la cravatta, tutti in divisa
da lavoro, tutti all’opera! E così andammo avanti per
più di un mese, finché l’azienda non ebbe ingaggiato il
personale necessario.
Me la Milena mi mandava sempre a pulire i gabinetti.
“Perché sempre me a fare i cessi?”
“Perché te sei precisina e li sguri bene...”
Ah, va pur là.
Una sera, finito il mio turno di lavoro, mi metto il mio
bel grembiule tipo bidella; ho gli zoccoli, lo spazzone,
il secchio con il vim e i detersivi, e sono lì che aspetto
l’ascensore.
L’ascensore arriva, si apre la portiera, esce una signora
benvestita. È una dell’Inps, che ha appena finito la sua
giornata.
Mi fa: “Lei dove va?”
“Vado su al sesto piano.”
Mi squadra e sibila: “L’ascensore è solo per gli impiegati;
le donne delle pulizie vanno a piedi.”
“Ah, va bene...”
Aspetto che la tipa se ne vada, e poi entro in ascensore
e salgo al sesto piano.
Prima però m’informo dal portiere, che ha assistito alla
scena.
“Chi è quella là?”
“È la capa del terzo piano.”
“Bene, grazie.”
La mattina dopo mi tiro tutta elegantina: riccioli rossi,
gonna a quadrettini, giacchino di pelle blu, fighetta da
matti. Scarpina con tacchettino, la borsina in tinta.
Mio babbo quando mi vede uscire mi fa: “Ben ma dove
vai oggi, a ballare?”
“Te lo spiego poi stasera.”
La mia meta è un’altra. È il palazzone dell’Inps. Arrivo.
Salgo al terzo piano, entro. Ci sono tante scrivanie di
legno, disposte su tre file, come i banchi a scuola. E in
fondo, seduta a una specie di cattedra, c’è lei, la capa
del terzo piano.
Dalla soglia, alzo un dito: “Posso?” E intanto mi avvicino.
Lei è sorpresa.
Le sono davanti: “Mi riconosce? Posso prendere l’ascensore
adesso, dottoressa?”
Lei comincia a realizzare.
E io: “Ieri sera ero qui con la divisa delle pulizie e lei mi
ha proibito di prendere l’ascensore. Sono venuto a dirle
che lei ha mancato di rispetto non tanto a me, ma a tutti
quelli che fanno un lavoro più umile del suo. Mi scusi,
ma lei è una gran maleducata e una cafona.”
È rimasta a bocca aperta; non ha detto una parola, stordita.
Ho girato le spalle e me ne sono andata. Un giovane
sottoposto, con la punta dell’indice si è slargato l’occhio
con una smorfia di approvazione.
La sera ho raccontato al mio babbo dov
’ero andata, e
cos’ero andata a fare.
Mi ha risposto: “Se me lo dicevi, venivo anch’io.”
Oh, voi che siete giovani, che avete appena cominciato
la vostra vita lavorativa, non crediate che questi 45 anni
siano stati tutti da ridere.
Oh, lavorare stanca!
A volte si soffre, si sta anche male.
Anch’io ho avuto un periodo buio. Per me – che il lunedì
è il più bel giorno della settimana – c’è stato un tempo
che piangevo tutte le mattine.
Mi avevano messo alle politiche sociali, a lavorare con
un responsabile che era uno zero assoluto.
Lavorare? Tutto il giorno aspettavo che l’orologio facesse
il suo giro. Per me, stare con le mani in mano è la
tortura più atroce che puoi infliggermi.
Ero disperata. Stavo già maturando l’idea di andarmene,
di cambiare lavoro. Non avevo più fiducia in niente e in
nessuno.
Arrivò Levorato, si era nel 1984. Una mattina passò da
noi nei nostri uffici per un consiglio di amministrazione.
Milena Rimondini mi disse: “Quello lì è il nuovo presidente.”
Indossava una maglietta polo, un paio di jeans, i capelli
lunghi sulle spalle. Un tipo molto diverso da quello di
prima, Mario Bortolotti, che era largo, pelato, e sembrava
uno del politburo sovietico.
Guardo il nuovo presidente mentre passa, un po’ scettica,
e faccio: “Be’, almeno questo è giovane.”
Ma ci credo poco. Non mi aspetto niente di nuovo.
E infatti non succede niente. Ha altre gatte da pelare.
Poi un giorno mi chiama. Vado da lui, mi dice che vuole
rafforzare la segreteria di presidenza.
Io non lo conosco ancora. Prendo una seggiola, mi siedo
in faccia a lui e gli faccio: “Senti mo, Levorato, io non
voglio portarmi da casa un mazzo di carte e venire qui a
farmi dei gran solitari...”
Passiamo subito al tu, gli espongo il quadro della situazione.
Mi ascolta, ci intendiamo, mi dà fiducia.
Prima cosa: riordino armadi, archivi; bonifico cassetti,
faldoni, carpette. Io sono nemica giurata del disordine,
dell’approssimazione. Se le cose sono al suo posto nei
cassetti, sono al suo posto anche nella testa. [lascia l’errore]
Poi la storia la sapete tutti. Parte un nuovo ciclo di Manutencoop.
Anno dopo anno, Levorato guida l’ascesa
dell’azienda. Da Bologna ci espandiamo in tutta Italia.
La barca va, io sono ai remi, mi piace remare spalla a
spalla con tutti voi, chiedo solo di remare per la barca
comune. A fare la rotta c’è il capitano, io metto a disposizione
la memoria storica della navigazione e dei naviganti.
Al massimo suggerisco qualche colpetto di barra
se la nave s’inclina, se qualcuno cade in mare.
Cosa volete, io vi conosco tutti. E so nel profondo del
cuore che siamo tutti preziosi. Per quel po’ che posso,
cerco di fare in modo che a bordo siamo uniti, ognuno
al suo posto, senza che nessuno debba rinunciare a sé
stesso. E intanto mi occupo della cancelleria, degli sprechi,
della sedi, degli eventi, dell’assemblea di bilancio,
eccetera eccetera.
Sono venuta su alla scuola di Cremonini, e quello che
ho imparato è quello che faccio, e che adesso insegno.
Perché, ditemi, cosa resta di noi se non trasmettiamo la
nostra esperienza, i nostri valori?
Il capitale umano, alla fine, è la nostra forza, siamo noi.
Siamo noi donne e uomini, con il nostro spirito, le nostre
speranze. Con le nostre provenienze dai quattro cantoni
del pianeta. Con la nostra dignità, con la nostra fame
di riscatto.
Il nocciolo profondo è qui, è questo il patrimonio.
Noi che anche nelle nostre facce, nei tratti dei nostri visi,
abbiamo i segni di un mondo difficile, di una convivenza
da cercare, di muri e frontiere da abbattere.
Naturalmente ci sono numeri e grafici, ci sono i fatturati,
la borsa (togliere) , che parlano di noi.
Ma io preferisco le storie vere, le storie delle persone.
Come quella della Mimoza, un’operaia albanese, che
qui fra di noi è cresciuta professionalmente. È diventata
caposquadra, ha trovato il suo posto nel lavoro e nella
vita. Non so quale sia la storia passata di Mimoza, non
so se anche lei sia arrivata dal mare insieme a tanti altri
in cerca di speranza e di futuro.
So che un giorno ha ottenuto la cittadinanza italiana. E
per festeggiarla, ha fatto una torta a forma di cuore, con
i colori della bandiera italiana. E quel giorno, con quella
torta, è venuta al lavoro. Ed è andata dal presidente.
Quel giorno nel suo ufficio eravamo in tre o quattro con
Levorato e la Mimoza. Non abbiamo fatto nessuna cerimonia
speciale intorno a quella torta tricolore che coronava
la lunga odissea della nostra collega. Ma eravamo
commossi come bambini.
Eravamo tutti lì, con gli occhi lucidi.
Ditemi voi, che altro chiedere alla vita?
Grazie a tutti, vi saluto.
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