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Storia di Klaudio, salvato dai canestri

Rubrica Tarozzi

di Marco Tarozzi
biografia

Avevano bisogno di gente che in campo si batte davvero. Quella che si sbuccia le ginocchia, dicono in gergo, che non molla di un centimetro, che spende più energia di quella che ha dentro. Ne avevano bisogno davvero, in una Virtus Bologna che si è ritrovata da icona della pallacanestro italiana a squadra che deve rimettersi in gioco in Serie A2, per riconquistare l’alta quota. Allora è stato semplice pensare a lui. A Klaudio Ndoja. Uno che i compagni chiamano “Gladiatore”, e non per caso. Non è solo una questione di agonismo, la forza che si porta dentro. Non c’entrano nemmeno quei due metri d’altezza. È proprio una storia di vita, di incroci complicati, sentieri che si inerpicano, esistenza ai margini. E di tutto quello che una persona può fare per risollevarsi.

Se ti chiama una società come la Virtus, non è che stai a pensarci troppo. Serie A o A2 conta il giusto, dietro ci sono la storia e l’orgoglio in qualche modo di farne parte. Ho girato tanto, nella mia vita. Ora spero di fermarmi qui, per un po’”.

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KLAUDIO NDOJA

Klaudio Ndoja è nato a Scutari, in Albania, il 18 maggio 1985. Sfuggito alle condizioni precarie del suo Paese, è arrivato in Italia nel 1998, con un’imbarcazione carica di clandestini. Una storia che ha scritto nel libro “La morte è certa, la vita no. Storia di Klaudio Ndoja” insieme a Michele Pettene. Ha giocato in Serie A a Capo D’Orlando, Brindisi e Cremona e recentemente è diventato un giocatore di Virtus Segafredo Bologna. Ha rappresentato l’Albania alle qualificazioni dell’Europeo di basket 2013. Con Brindisi ha vinto una Coppa Italia di Legadue nel 2012 e nello stesso anno ha conquistato la promozione in Serie A.

IL PAESE SENZA FUTURO
Poche parole, come sempre. Non gli piace buttarle via, e c’è stato un tempo in cui erano preziose come l’aria. Lui era un ragazzino, allora, e intorno c’era un mondo che andava a rotoli. Il suo, l’Albania. Nel 1998, un paese dilaniato da una lunga guerra civile e che ha da poco subìto un colpo di stato. A Scutari, Klaudio era cresciuto con la passione per il basket, aveva anche iniziato con le società della zona, lo Scutari Basket e il Villaznia, e in molti si erano accorti del suo talento. Ma ormai anche coltivare la passione è diventato un lusso. Perfino andare in palestra significa mettere a rischio la vita. Un giorno, giocando nel cortile di casa con Klaudio, la sorella Alba viene colpita di striscio ad una gamba da un proiettile vagante. È allora che papà Paulin decide che è venuto il momento di andarsene con tutta la famiglia. Il viaggio verso l’Italia è una tempesta dentro l’anima, oltre che un’incognita: un milione e mezzo di lire a persona da consegnare agli scafisti, un investimento in un paese dove lo stipendio medio è di poco più di 150mila lire. E mezzo milione in tasca per andare verso l’ignoto, senza un documento. Partenza da Valona di notte, mare agitato ed elicotteri dell’esercito che sorvolano il mare cercando proprio quelle barche in fuga. Gli Ndoja approdano a Brindisi e sono costretti ad acquistare i biglietti del treno proprio dai mercanti che avevano messo in gioco le loro vite. Finiscono a Reggio Emilia, poi a Lodi, sempre con quella sensazione di insicurezza addosso. Sono profughi, migranti senza ritorno. Sono “invisibili”.

IL CANESTRO DELLA SPERANZA
Non è questione di sogni. Qui c’entrano la volontà, la tenacia, la voglia di emergere anche partendo dal fondo. E la passione per il basket, certo. A Palazzolo Milanese papà Paulin trova lavoro come guardiano notturno, mentre Klaudio che ha tredici anni comincia a frequentare l’oratorio. “Era come non esistere. Niente scuola, nessun amico, giornate vuote. Andavo a giocare perché ho la pallacanestro nel sangue, ma temevo sempre di essere scoperto e rimandato in Albania, coì non legavo con nessuno”. Non cerca amici o parole, cerca un canestro. Lo trova, e gli altri si fermano a guardarlo. Compreso don Marco, il parroco, che un giorno lo convince a giocare nella squadra che ha messo in piedi per disputare il campionato Csi. La rinascita parte da lì. Non si fermerà più. Lo notano gli osservatori della squadra di Desio, lo chiamano per un provino e lo tesserano di corsa. La vita sta cambiando, anche Paulin ha trovato lavoro come meccanico, mamma Katina in una lavanderia. Klaudio passa a Casalpusterlengo, poi a Sant’Antimo, quindi a Napoli per la prima volta da solo, non potendo portare con sé la famiglia, e ancora Borgomanero. Una vita errante, per un ragazzo che ha già deciso di fare della pallacanestro un mestiere. La svolta arriva nel 2007: nove anni dopo l’approdo in Italia, il ragazzo che sfuggiva la guerra andando a canestro diventa un giocatore di Serie A, a Capo d’Orlando.

Se ti chiama una società come la Virtus, non è che stai a pensarci troppo. Serie A o A2 conta il giusto, dietro ci sono la storia e l’orgoglio in qualche modo di farne parte. Ho girato tanto, nella mia vita. Ora spero di fermarmi qui, per un po’.

LA VITA IN UN LIBRO
Il viaggio per l’Italia continua, ma ora ha un altro sapore. Ndoja gioca a Scafati, a Jesi, a Ferrara, diventa un idolo a Brindisi, dove conquista la promozione in Serie A da capitano, torna nella massima serie a Cremona, passa da Verona e Mantova. È ormai un giocatore dalle caratteristiche apprezzatissime: uno che si sacrifica, che si batte senza pause, che mette il cuore oltre l’ostacolo. Un professionista dei canestri. Ma tutta questa storia, un bel giorno, decide di raccontarla. Lo fa insieme a Michele Pettene, giornalista veneto, e quello che ne esce è un libro profondo e intimo, che racconta insieme un dramma e una rinascita. Si chiama “La morte è certa, la vita no. Storia di Klaudio Ndoja”.

L’ho voluto per dare speranza ai milioni di migranti che in questi anni fuggono dai loro paesi in cerca di una vita migliore. Ero uno di loro, e ce l’ho fatta. Mi sono battuto contro i pregiudizi e il razzismo, e ne sono venuto fuori grazie al basket. Ma la salvezza può avere altri nomi, quello che conta è non mollare mai”. Uno così, oggi, indosserà una maglia piena di prestigio e storia. In un momento delicato, per una squadra che in passato è stata ai vertici in Italia e in Europa. Di rinascita, alla ricerca di una nuova gloria. O semplicemente di futuro. In un’Italia che per molti versi è cambiata, e quasi mai in meglio. “Arrivare qui a diciotto anni non è stato semplice, ma è andata bene. Ma chi lascia un paese per sempre lo fa perché è costretto. Oggi il clima mi sembra cambiato, e mi dispiace perché l’Italia ha tutto per essere un grande paese, e nei miei confronti lo ha dimostrato. Ma la differenza la fanno le persone, e ultimamente anche qui succede sempre meno”.

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