L'ALTRO SPORT
Vite da campione
Una corsa verso la normalità

di Marco Tarozzi
biografia
Voleva fare il calciatore. Ma aveva, anche da ragazzino, una dote che svettava sulle altre. Lui, ala sinistra senza piedi troppo fatati, usciva alla distanza, quando gli altri calavano inesorabilmente il ritmo. Semplicemente perchè correva e correva, fino all’ultimo minuto. E da un certo punto della partita in avanti, classe o no, sul pallone ci arrivava prima. Solo che un giorno Daniele Meucci ha deciso di levarselo di torno, quel pallone. E di continuare a correre. È così che è diventato maratoneta. E poi il migliore in Italia. E poi il campione d’Europa
A ventinove anni, Daniele è molto più che un atleta di vertice. È un uomo che ha trovato il suo equilibrio, nella vita prima ancora che nello sport. Padre felice, a un passo dalla laurea in ingegneria. E sì, certo, anche maratoneta, capace di vincere la medaglia d’oro agli Europei di Zurigo, lo scorso agosto. Ma questo è soltanto un aspetto della faccenda.
Dico sempre che lo studio mi ha permesso di fare atletica, e l’atletica di studiare. Ed è la verità. È stata la mia via d’uscita dalle specializzazioni, avessi dovuto pensare soltanto ai libri o solo ai chilometri da correre, non sarei a raccontare questa storia. Mi piace vivere intensamente atletica e università, non mi costa fatica. Non mi fossilizzo né sull’una né sull’altra, e intanto mi tengo vivo. E i figli hanno cambiato prospettive e orizzonti. I miei amici dicono che la mia televisione ha le ragnatele, ed è così, non ho tempo di fermarmi davanti allo schermo. Ma non è vero che non la usa nessuno, chiedete a Dario e Noemi, i miei bimbi. Sanno soltanto loro le scorpacciate di cartoni animati che si fanno…

Pure, la maratona è qualcosa di profondamente spirituale. Richiede sacrificio, dedizione e non fa sconti. E ha bisogno dei silenzi, o meglio delle parole pensate e contate, di Daniele. L’antidivo, l’eroe d’Europa che non stacca mai i piedi da terra, se non per correre più forte del resto del gruppo.
È che io a correre mi diverto. Per me divertimento è una parola chiave: corro ancora per quello, quando non mi piacerà più smetterò, come ho iniziato. Magari è proprio per questo che ho vinto a Zurigo. Non sono mai stato un “fissato” della corsa, e ne vedo tanti lungo il cammino. Ci sono amatori che da questo punto di vista sembrano professionisti veri, al mio confronto. Io quando finisco di correre penso ad altro. I bambini, la famiglia, lo studio. Non mi metto a ragionare dell’allenamento del giorno dopo. Sono fatto così.
Ragiona, invece, sulle cose che gli girano intorno. Sullo sport e sulle emozioni che regala, per esempio, ma anche sugli eccessi. Partendo proprio dal calcio, che ancora ama.
“L’Europeo è stato un bel passo per la costruzione della mia carriera sportiva. Ma voglio e devo guardare oltre. Al Mondiale del 2015, per esempio. E comunque, sempre alla prossima maratona, che mi insegnerà qualcosa di nuovo. Questa è una gara particolare, devi avere rispetto per la distanza ed essere disposto a metterti in gioco ogni volta, per imparare.”
Sono pisano e quando posso vado a vedere le partite allo stadio. Ho giocato e non rinnego quegli anni, e la voglia che avevo di diventare “uno buono”. Il problema è che mi dà noia vedere quello che gira intorno al gioco puro e semplice. Mi infastidiscono certi schiaffi alla miseria. Leggo di giocatori che discutono di ingaggi milionari, che rifiutano cifre che sistemerebbero la vita a tanta gente. Non invidio nessuno, è proprio una questione morale per me. Parliamo ogni giorno di crisi, ce ne parlano addosso e non è un tormentone ma una cosa reale, che si sente. Io sto tutto il giorno a contatto con gente normale, che lavora ore e ore per sopravvivere, che al supermercato fa i conti su quello che deve e può acquistare. Certi eccessi, allora, mi infastidiscono. C’è qualcosa che tocca, manca un senso etico.
Il maratoneta srotola pensieri forti, senza farne un’arma. È semplice, nel raccontare il mondo che vorrebbe. Dice che ha imparato a sfrondare, a togliere i pensieri in eccesso, correndo sugli altopiani d’Africa, la prima volta un anno fa e poi ancora quest’anno, prima degli Europei. Per prepararsi alla gara più importante, ma anche alla vita.

Quei viaggi mi hanno aiutato a “diventare grande”. Laggiù capisci veramente che cosa è la vita. Sono convinto che un’esperienza del genere, un mese passato in quei posti, farebbe bene a tanta gente. Quando torni apprezzi un programma in tv, l’acqua calda, un piatto di pasta cotto bene. Il nostro è un mondo che va di fretta, che non si ferma più a riflettere. Mi sono allenato insieme a ragazzi per cui la corsa significa semplicemente salvezza, e allora cercano il futuro provando a correre ogni giorno più forte. Ci tornerò, in Africa, e voglio portarci i miei figli perché capiscano la loro fortuna. Là ho trovato un’umanità che qui abbiamo smarrito..
Daniele è forte dentro. E la forza gli viene dagli affetti. Giada, la compagna che lo capisce perché è stata una buona mezzofondista (“anche se evitiamo di parlare di atletica, quando siamo insieme”), i bambini, le radici (“ho lo stemma di Pisa, repubblica marinara, tatuato sulle spalle. Ne vado fiero, anche se i miei amici livornesi dicono che “è meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”). Piccole, grandi certezze. Che lo hanno portato in alto, sulla soglia dei trent’anni. E che lo tengono in rotta, perché un maratoneta si perde se pensa di essere arrivato.
SE FOSSE
UN FILM...
“Atanarjuat – the Fast Runner” (2001)
di Zacharias Kunuk
Opera prima del regista canadese di origini inuit narra la storia di due fratelli nella lotta contro il male: uno ha la forza l’altro la velocità.
“L’Europeo è stato un bel passo per la costruzione della mia
carriera sportiva. Ma voglio e devo guardare oltre. Al Mondiale
del 2015, per esempio. E comunque, sempre alla prossima
maratona, che mi insegnerà qualcosa di nuovo. Questa
è una gara particolare, devi avere rispetto per la distanza ed
essere disposto a metterti in gioco ogni volta, per imparare.
Sarei finito se cominciassi a sentirmi arrivato. Certo, so che
da adesso tutto è diverso. Dovrò caricarmi sulle spalle maggiori
pressioni e aspettative. Ma io conto su chi conosce la
mia disciplina: quarantadue chilometri non sono un gioco, ma
un percorso pieno di imprevisti, di variabili, anche durante la
marcia di avvicinamento alla gara. Chi sa tutto questo, non
verrà a chiedermi altre medaglie, ma semplicemente sacrificio,
lavoro, passione, determinazione. Non è poco, ma questo
è l’impegno che continuerò a prendermi. Finché correre mi
diverte, come adesso.
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