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Levorato

traduzione: eng | عربي

di Giancarlo Strocchia

Valore e valori delle Cooperative

Socio, mutualità, partecipazione. Concetti destinati ad essere soppiantati dalla necessità di ricorrere una gestione più “capitalistica” delle cooperative, o strumenti di rilancio di un sistema che sembra sopravvivere alla crisi del mondo finanziario? Su questo che forse rappresenta lo snodo intorno a cui si concentra il futuro delle grandi cooperative abbiamo scambiato alcune opinioni insieme al Prof. Stefano Zamagni, ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna.

Professore, quali sono i valori caratterizzanti il sistema imprenditoriale cooperativo che “sopravviveranno” alla trasformazione che l’economia italiana e globale dovrà, sembra irrimediabilmente, subire per uscire dalla crisi che ancora la stringe?

La risposta è in una parola: democrazia. Come nella sfera politica è la pluralità dei partiti a costituire il presupposto indispensabile – anche se non unico – per il gioco democratico, allo stesso modo mai si potrà avere democrazia economica in presenza di un solo tipo di impresa – quale che essa sia. Ecco perché abbiamo bisogno che sul mercato possano operare, fianco a fianco, imprese capitalistiche, imprese cooperative, imprese sociali, (e imprese civili, come mi auguro che possa accadere nel prossimo futuro). Il principio di libertà, infatti, esige che la scelta da parte del cittadino-consumatore non si limiti alla possibilità di optare tra una pluralità di imprese tutte dello stesso tipo, ma deve estendersi anche alla pluralità delle tipologie di impresa. C’è poi una seconda ragione importante che parla a favore dell’impresa cooperativa: la riduzione dell’ineguaglianza nella distribuzione dei redditi. Nelle regioni o nelle aree in cui vi è una forte presenza cooperativa vi è una minore dispersione dei redditi. Ciò è dovuto al fatto che la cooperativa non separa – come invece accade nell’impresa capitalistica – il momento della produzione del reddito dal momento della sua distribuzione. Si osservi che la presenza di forti ineguaglianze non pone problemi di natura solamente sociale o etica ma anche, e direi soprattutto, di natura economica, costituendo un grosso impedimento allo sviluppo.

Alcune grandi imprese cooperative “competono” oramai, per capacità economiche e efficienza operativa, con aziende più tradizionali. Come è possibile rendere intelligibili anche presso i non addetti ai lavori le differenze di gestione e di impostazione di questi due modi di fare economia?

L’argomento in base al quale la dimensione d’impresa dovrebbe essere il criterio per differenziare la vera o genuina cooperativa da quella che non è tale è privo di ogni fondamento, teorico e pratico. La realtà ci mostra cooperative di piccole dimensioni che male interpretano la loro identità, e cooperative di grandi dimensioni che invece realizzano appieno la loro missione. Perché allora è così radicato nell’opinione pubblica il convincimento in base al quale solo la piccola-media cooperativa sarebbe autenticamente tale? La spiegazione è che nell’esperienza italiana la crescita dimensionale è avvenuta nel corso dell’ultimo quarto di secolo, in modo talmente rapido e brusco da aver colto di sorpresa la stessa dirigenza cooperativa. Quale la conseguenza? Che dovendo provvedere a dotare le strutture aziendali in rapida crescita di un management adeguato, in assenza di figure professionali di alto profilo endogene al movimento cooperativo, si è finito con l’importarle dall’esterno, cioè dal mondo dell’impresa capitalistica. E qui sono cominciati i guai, perché si è fatta strada l’idea che vi fosse una “incompatibilità” manageriale tra le due tipologie di impresa. Il punto è che la struttura organizzativa non è affatto indipendente dal fine che l’impresa persegue e dalla sua identità specifica. Non si governano allo stesso modo un’impresa di capitali e un’impresa cooperativa operanti nel medesimo settore, pur della stessa dimensione.

Socialità, relazione e produttività. Il sistema cooperativo è ancora la risposta più efficace alla volontà di porre in collegamento questi principi o si profilano delle alternative possibili?

Il grande vantaggio dell’impresa di capitali rispetto a quella cooperativa sta nell’asimmetria tra gli input di capitale e lavoro. Mentre la proprietà dei beni capitali può essere trasferita da un soggetto all’altro, la capacità di fornire lavoro è inalienabile. Ne deriva che un’impresa può ottenere il capitale di cui abbisogna sia da un stock di beni di sua proprietà sia da un flusso di servizi ottenuti da beni presi a prestito; invece può ottenere i servizi di lavoro solamente nella forma di un flusso. (Non esiste, infatti, lo stock di lavoro). Inoltre, chi fornisce lavoro non può trovarsi in più luoghi di lavoro al medesimo tempo; il fornitore di capitale, invece, può starsene lontano dal processo produttivo al quale cede le sue “macchine” e può collocarle anche in luoghi diversi simultaneamente. È bene che nel mercato possano operare, in condizioni 12 Intervista di sostanziale equità, imprese di capitali e imprese cooperative. Infatti, vi sono settori produttivi nei quali la non alienabiltà del fattore lavoro – tipica della cooperazione – costituisce un elemento di vantaggio comparato; ma vi sono anche settori in cui è l’alienabilità del fattore capitale – tipica dell’impresa capitalistica – a fare aggio. Un’economia che voglia progredire ha dunque bisogno di un mercato plurale.

STEFANO ZAMAGNI: BIOGRAFIA

1943 Nasce a Rimini

1966
Si laurea in Economia e Commercio all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano)

1969-1973 si specializza all’Università di Oxford (UK)

1985-2007
Ha insegnato all’Università Bocconi (Milano) come professore a contratto di Storia dell’analisi economica.

1989-1992 è stato Vice presidente della Società Italiana degli Economisti

1993-1996
è presidente della Facoltà di Economia dell’Università di Bologna

Dal 1996 è direttore del Corso di Master Universitario in Economia della Cooperazione dell’Università di Bologna

1997-2000
è stato Presidente del Corso di Diploma Universitario, oggi Corso di laurea, in Economia delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni Non Profit, presso la Sede di Forlì della Facoltà di Economia dell’Università di Bologna

Dal 1997 è presidente del Comitato Scientifico di Aiccon (Associazione Italiana per la Cultura Cooperativa e delle Organizzazioni Non Profit)

2002-2008 è stato direttore del Comitato Scientifico della Scuola Superiore di Politiche per la Salute, all’Università di Bologna.

Dal 2007 è presidente dell’Agenzia per le ONLUS, Milano

Ha ancora senso, e secondo quali parametri, parlare di “valore sociale dell’impresa”?

Che il cooperativismo si trovi oggi ad un punto di svolta è cosa ormai a tutti nota. Si tratta di un fatto che dice della vitalità di una forma di impresa che ha saputo conquistarsi sul campo i galloni del successo. Al tempo stesso, però, questi risultati lusinghieri fanno emergere interrogativi nuovi e preoccupanti. Ha fondamento la tesi di chi ritiene che nella stagione della finanziarizzazione dell’economia non vi sia spazio per imprese che, come le cooperative, fanno della dimensione sociale la loro cifra distintiva? A ben considerare, interrogativi del genere rinviano tutti, più o meno direttamente, alla questione di come finanziare il processo di crescita della cooperativa senza che ciò metta a repentaglio la sua identità specifica. Come può una cooperativa, a mutualità prevalente, controllare una società di capitali (in cui lavorano persone non socie) oppure servirsi dei nuovi strumenti finanziari (imputandoli persino a capitale sociale) e conservare integra la propria identità? è bensì vero che le norme limitano il potere dei sottoscrittori dei nuovi strumenti, ma non la partecipazione patrimoniale. È altresì vero che lo scopo mutualistico dei soci autenticamente cooperatori non viene cancellato per consentire il conseguimento del fine lucrativo a coloro che sono portatori dei nuovi titoli, ma non c’è forse il rischio di un effetto di spiazzamento (crowding out) e ciò nel senso che lo scopo lucrativo finisca con lo spegnere lo scopo mutualistico? Come si comprende, si tratta di questioni fondamentali che pongono la cooperazione di fronte alla apparente alternativa tra conservare l’identità (e rinunciare ad espandersi) e crescere (e accettare lo snaturamento). Ma a ben considerare, la situazione non è così tragica come a prima vista potrebbe apparire o come spesso viene dipinta da non disinteressati interlocutori. certamente vero che le società partecipate (siano o no quotate in borsa) non potranno avere la medesima funzione obiettivo – se vorranno essere interessanti per i partner non cooperativi – delle cooperative partecipanti. Ma ciò non implica affatto che il gruppo cooperativo debba replicare il modello di governance del gruppo capitalistico omologo, né abbia bisogno di adottare una gestione strategica basata sul principio del cosiddetto shareholder value, cioè la massimizzazione del valore per l’azionista. Se il gruppo cooperativo realizza un modello esteso di governo in cui il management ha doveri fiduciari nei confronti di tutte le classi di stakeholder, allora scompare il potenziale conflitto di interesse tra soci di capitale e soci che rappresentano, entro il gruppo, gli interessi delle imprese cooperative. Due però le condizioni necessarie che vanno soddisfatte a tale scopo. La prima è quella di respingere, in ogni modo, la tentazione della doppia moralità: si gestisce il gruppo cooperativo con una logica diversa, anzi antagonista, rispetto alla logica che viene seguita all’interno delle cooperative controllanti. La dualità di logiche di conduzione degli affari porta sempre, prima o poi, ad esiti perversi. La seconda condizione necessaria che va soddisfatta è l’accoglimento da parte della dirigenza del gruppo cooperativo della strategia del democratic stakeholding intesa come superamento del managerial stakeholding. Mentre quest’ultimo è un modello di governance in cui è il Ceo o, al più, il consiglio di amministrazione a cercare, in modo più o meno paternalistico, di comporre i vari interessi in gioco, con il democratic stakeholding si cerca di offrire a tutti coloro che intrattengono rapporti con il gruppo la possibilità reale (non virtuale) di partecipare al processo deliberativo nelle forme che, a seconda delle situazioni, si riterranno più adeguate.

Da più parti si sostiene che il nostro Paese, in virtù dell’attitudine al risparmio della sua popolazione e ad un sistema bancario meno esposto al “debito”, possa uscire da questa crisi con minori conseguenze negative e, anzi, in una posizione di vantaggio rispetto ad altri Paesi europei. Qual è il suo pensiero in merito?

è vero che, per paradossale che ciò possa sembrare, il nostro paese, proprio a causa della strutturale debolezza del suo settore finanziario, uscirà dalla crisi con conseguenze meno pesanti rispetto a quanto avviene altrove. Ma ciò non deve essere motivo di eccessiva soddisfazione. è chiaro, infatti, che quando spira forte il vento è sempre l’albero più alto a piegarsi di più fino a toccare terra: l’albero basso resiste più agevolmente alla furia delle intemperie. Non basta dunque accontentarsi di uscire dalla crisi; bisogna piuttosto trarre occasione della crisi per superare quelle strozzature che impediscono al nostro paese di imboccare la via di uno sviluppo sia sostenibile sia civile. La riforma più importante e più urgente a tale riguardo è quella che concerne il sistema di welfare. Si tratta di passare da un welfare volto a migliorare le condizioni di vita di coloro che rimangono indietro ad un welfare teso a migliorare la capacità di vita di tali persone. Ad esempio, a poco serve proteggere i posti di lavoro, quando questi sono divenuti obsoleti; molto meglio proteggere i lavoratori che hanno perso il loro posto aiutandoli a reinventarsi nuove professionalità.

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