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Vite da campione
Kurt, il mito d’alta quota

Rubrica Tarozzi

di Marco Tarozzi
biografia

Se non lo conosci, Kurt Diemberger ti spiazza sempre un po’. Ha lo sguardo mite e la modestia nella voce, quando racconta i sogni andati e certe storie che ancora oggi sembrano fantascienza. Invece è una leggenda. L’unico alpinista vivente a poter contare due prime ascensioni assolute oltre gli ottomila metri. Gli hanno assegnato, per questo, il Piolet d’Or nel 2013, un riconoscimento che è andato a Walter Bonatti, Reinhold Messner, Doug Scott, Robert Paragot, John Roskelley, Chris Bonnington, Wojciech Kurtyka. Il club dei più grandi.

Un giorno di sessanta anni fa, quando arrivò in cima al Broad Peak, non c’erano orme davanti alle sue. Era il primo a camminare sulla “Cima Larga”, insieme ad Hermann Buhl, Fritz Wintersteller, Marcus Schmuck. Era il 9 luglio 1957, domenica di Pentecoste, che loro vissero a quota 8051. Tre anni dopo, l’altra impresa sul Dhaulagiri, altro Ottomila fin lì inviolato. Anche se Buhl, mito dell’alpinismo, non era più accanto a lui. Era stato l’ultimo a vederlo vivo, Kurt, proprio pochi giorni dopo la conquista del Broad Peak. L’alpinismo era questo, e in parte ancora lo è. Gioie e dolori intensi, estremi. Nato a Villach, in Carinzia, nel 1932, Diemberger è diventato quasi cittadino italiano, anzi bolognese.

Da oltre vent’anni vive in collina vicino a Calderino, e da lì parte per incontrare ancora oggi, con ottantacinque primavere sulle spalle, quelli che hanno voglia di ascoltare i racconti di questa sua fantastica vita in certi convegni o conferenze serali che grazie a lui diventano favole moderne. Parla di conquiste d’altri tempi, avventure dimenticate e allora apparentemente impossibili.

Per arrivare alla catena del Karakorum, nel ‘57, la tappa più lunga di avvicinamento la percorremmo in nave. Fino all’Asia. Immaginate che preparazione possiamo aver fatto in quei giorni? Noi andavamo sulle palestre alpine in bicicletta. Pedalavamo per arrivare vicino al rifugio, camminavamo fin sotto la parete, arrampicavamo. Andata e ritorno. Così ci si teneva allenati, per amore o per forza. Durante una spedizione himalayana dimagrivo anche di quindici o venti chili. Ma al ritorno ricadevo presto nei piaceri della tavola e recuperavo sempre in poche settimane...”

“Io stesso ho rischiato la vita, sono in tanti a chiedermi come si fa, dopo, a riprendere la strada della vetta. Rispondo sempre che se uno nasce marinaio non può mettersi a fare il contadino.”

Ai due giganti della montagna, Diemberger ne ha aggiunti altri: Everest, K2, Makalu, Gasherbrum. Cinquant’anni fa, con il grande Hermann Buhl, portò lo stile alpino nelle spedizioni himalaiane. In alto, senza compromessi: pochi uomini scelti, niente portatori d’alta quota e niente ossigeno. Nel ‘78, tornato ad alta quota dopo aver attraversato il mondo con spedizioni “in orizzontale”, conquistò tre ottomila nello spazio di quindici mesi. Oggi il rapporto con la montagna è cambiato, come il concetto stesso di conquista. Salire un Ottomila può ancora essere un’impresa, ma in certi casi è diventato un vezzo. Basta pagare. E oggi a salire sono spesso alpinisti improvvisati. Che rischiano più di quanto possano immaginare, perché la montagna è rimasta la stessa: non perdona errori e superficialità.

Cosa avvicina le nostre imprese a quelle di oggi? Dipende da come si organizza una salita. C’è ancora chi sceglie la via dell’autonomia, con spedizioni a basso costo, e queste avventure hanno molti punti in comune con quelle di allora. Anche il problema degli sponsor era sentito ai miei tempi come oggi. Certo, se avevi Hermann Buhl in spedizione ricevevi più attenzioni, perché lui era davvero un mito, era il numero uno per tutti, uno che viveva l’alpinismo con anni e anni di anticipo sui suoi tempi. Ma c’erano anche questioni etiche, allora. Per dire: non esisteva che ci si mettesse un giaccone pieno di scritte pubblicitarie. Anche se lo sponsor ti aveva finanziato, gli indumenti restavano immacolati. Cucire un logo su una manica era giudicato sconveniente... Così, per finanziare un progetto ci si inventava di tutto. La spedizione svizzera che nel ‘60 affrontò il Dhaulagiri ebbe una bella pensata: vendiamo cartoline postali a trenta fiorini l’una, e chi le ha acquistate se le vedrà spedire dal Nepal con le firme di tutti i componenti. Ne autografammo sedicimila, facemmo firme per una settimana...”.

Cinquant’anni dopo, l’amicizia con Hermann Buhl è ancora un ricordo coloratissimo. Un’emozione forte.

L’amicizia è fondamentale, per la riuscita di una spedizione. Hermann mi aveva voluto in Himalaya dopo la mia impresa sulla “grande meringa” della parete nord del Gran Zebrù. Avevo venticinque anni. Quando arrivammo, in quattro, al campo base, Hermann decise che sarei stato io il responsabile dell’equipaggiamento medico. Tu hai studiato, mi disse. Avevo studiato, sì, ma economia e commercio. Ma Buhl aveva deciso che sarei stato il “medico in quota”, e io feci il medico. Potevo dirgli di no?”.

Legami profondi, e drammi personali. Diemberger è stato l’ultimo a vedere vivo il grande alpinista austriaco, scomparso sul Chogolisa pochi giorni dopo la conquista del Broad Peak, nel ‘57. E sul K2, nell’86, ha perso la compagna Julie Tullis, con la quale aveva creato alla fine degli anni Settanta quello che venne definito il “filmteam più alto del mondo”, che ha prodotto i primi grandi film ad alta quota in tempi in cui portarsi dietro il materiale per le riprese significava rendere ancora più dura e pericolosa l’ascensione. Vinto il K2, Julie fu colpita da un edema cerebrale durante la discesa, e morì nel sonno dopo essere stata la prima alpinista britannica a conquistare la cima.

Vai in montagna con un amico e dividi con lui le tue emozioni. Poi, un giorno, improvvisamente quell’amico non c’è più. Allora continui a salire, ed è un modo per rendergli omaggio, per sentirlo vicino come prima. Io stesso ho rischiato la vita, sono in tanti a chiedermi come si fa, dopo, a riprendere la strada della vetta. Rispondo sempre che se uno nasce marinaio non può mettersi a fare il contadino”.

Kurt Diemberger

Nato a Villach, in Carinzia, il 16 marzo 1932. È l’unico alpinista vivente ad avere nel palmares due prime ascensioni assolute sugli Ottomila (Broad Peak 1957 e Dhaulagiri 1960). Nel 1956 la prima grande impresa: Diemberger sale la parete nord del Gran Zebrù, nel gruppo dell’Ortles, ed è il primo uomo a superare la famosa “meringa di ghiaccio” che sporge dalla vetta. Il 9 luglio del ‘57 è uno dei quattro alpinisti austriaci che conquistano il Broad Peak. Sale insieme ad Hermann Buhl, che pochi giorni più tardi morirà cadendo in un crepaccio sul Chogolisa: Diemberger è l’ultimo a vedere vivo il grande alpinista di Innsbruck. Ha esplorato anche il deserto dello Shaksgam e la foresta amazzonica. Diemberger è anche un grande cineasta e scrittore. Nel ‘78 ha realizzato il primo documentario con sonoro in sincrono durante la scalata di due Ottomila, l’Everest e il Makalu. Ha vinto la Genziana d’Oro al Filmfestival di Trento nell’89. Nel 2013 gli è stato assegnato il Piolet d’Or, vero e proprio Oscar dell’alpinismo. Da anni vive sulle colline di Calderino.

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