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Vite da campione
Un deserto per rinascere

Rubrica Tarozzi

di Marco Tarozzi
biografia

Roberto Andreoli ha trovato un bivio sul proprio cammino. È stato nel 2012, neppure due anni dopo che Pietro se n’era andato per sempre. Un figlio ancora bambino che vola via è la cosa più incomprensibile, ingiusta, innaturale che un genitore possa sopportare, e Roberto ha conosciuto quei momenti e ha trovato dentro di sé la forza per rialzarsi.

Aveva sei anni, mio figlio, e una malformazione arterovenosa impossibile da diagnosticare, fino al giorno in cui si sentì male a scuola, in prima elementare. Emorragia cerebrale, poi una serie di operazioni e un lungo periodo fatto di attesa, timore, speranza. Il 18 febbraio 2010, dopo l’ennesimo intervento delicatissimo ma riuscito, quando eravamo pronti all’ennesima lunga riabilitazione, il suo piccolo cuore ha smesso di battere e lottare”.

Eccolo, il bivio. La vita che va avanti e ti chiede una reazione. Il tempo che ti occorre a decidere che sì, devi ricominciare a muoverti, per quel figlio che non c’è più ma senti ancora accanto, per chi ti sta intorno, per te stesso.

Non sono un supereroe, ma semplicemente parte di una famiglia che è stata fondamentale per ritrovare la strada. Io ed Enrica, mia moglie, ci siamo detti che bisognava andare avanti per Riccardo, che allora aveva nove anni. Abbiamo inseguito la normalità, ritrovandola anche con le nascite di Emma e Michele, che hanno illuminato il sentiero. E in tutto questo, ho deciso che dovevo migliorare anche io. Era il 2012, appunto. Pesavo 115 chili, fumavo, non facevo sport, mangiavo e basta. In certi momenti, ti restano due vie: o cadi in depressione o ti rialzi. Era arrivato il momento di scegliere”.

Quando ha deciso la strada da prendere, Roberto ha cominciato a percorrerla di corsa.

Ho fatto un po’ di dieta, ho iniziato con le prime uscite. Le prime volte non ero nemmeno attrezzato: niente cronometro, niente gpm. Misuravo i progressi a... isolati percorsi. E dopo neppure un isolato iniziavo a camminare. Mi sentivo goffo, inadeguato, ma ho continuato e un po’ alla volta ho iniziato ad aggiungere una via in più, a raggiungere un gruppo di case che mi sembrava lontano”.

Un isolato dopo l’altro, quasi naturalmente sono arrivati i primi pettorali da puntare sul petto.

Prima le corse domenicali, poi la prima “mezza maratona” nell’aprile del 2013, e la prima maratona alla fine di quell’anno. Fu a Verona, a novembre. Più che l’emozione, ricordo il timore: sul bus che ci portava alla partenza di Valpolicella, pensavo che quella distanza avrei poi dovuto percorrerla a piedi, e già così mi sembrava non finisse mai... All’arrivo dentro l’Arena, però, mi sono commosso davvero, ed è stata la prima volta”.

Nel 2016, tutto questo si è trasformato in una grande sfida. L’11 dicembre scorso, Roberto ha terminato tra gli abbracci la “100 km of Namib Desert” con un progetto nel cuore e più che mai accanto a sé quel figlio che non se ne è mai andato dai suoi pensieri. La sua corsa l’ha ribattezzata #Run106Pietro.

Un progetto dedicato a Una Onlus, che si occupa della ricerca medica per la lotta contro il Neuroblastoma, il più frequente tumore solido in età pediatrica. Perché mi sono preso questo impegno? Non certo per diventare “famoso” attraverso la corsa, ho semplicemente deciso che quello che farò in questo ambiente da oggi dovrà essere sempre più spesso legato ad occasioni di fare del bene. E se devi convincere qualcuno a supportarti, devi inventarti progetti d’impatto. Anche per dimostrare che una persona normalissima può riuscire a portarli a termine”.

Roberto, insomma, ha scelto una ultratrail run e ha superato anche i propri limiti, perché arrivare in fondo era la cosa più importante. Lo doveva a Pietro, prima di tutto, e nessuno avrebbe potuto fermarlo.

104 chilometri in quattro tappe. Una fatica che non immaginavo. Difficile per tanti motivi: l’ambiente, il terreno su cui abbiamo corso, la temperatura: in Namibia a dicembre è alta stagione, il clima per fortuna è secco ma negli ultimi chilometri della terza tappa, la maratona, il termometro è arrivato a segnare 61 gradi. A un chilometro e mezzo dall’arrivo di quella terza tappa, un’auto dell’organizzazione mi ha affiancato. Camminavo a fatica, volevano farmi salire. Ho tenuto duro, volevo arrivare in fondo e ce l’ho fatta. Ero immerso nel deserto vero, quello in cui ti rendi conto di cosa sia lo spazio perché ti guardi intorno e non vedi nulla e nessuno, perdi i riferimenti. Però quei momenti li ricorderò sempre: è lì che comprendi quanto in realtà siamo piccoli, noi che a volte, nella vita quotidiana, ci sentiamo invincibili”.

Anche gli ultimi chilometri dell’ultima tappa, prima del traguardo finale, sono un ricordo indimenticabile.

Ero appena sceso dal Big Daddy, la duna più alta del mondo, in un paesaggio mozzafiato. L’organizzazione ha messo una bandiera a un chilometro dal traguardo, in modo che terminata la prova potessi tornare indietro e poi di nuovo verso l’arrivo, per aggiungere quei due chilometri che occorrevano per arrivare a 106 e “richiamare” il mio progetto e la mia promessa. E tutti gli altri partecipanti hanno voluto camminare con me quell’ultimo tratto, perché sapevano i motivi che mi avevano portato lì. È stato commovente. Il messaggio? Credo si sia trattato di una rinascita, ho deciso di cambiare totalmente me stesso quando la mia strada stava prendendo una piega sbagliata. Ho fatto una riflessione sulla vita, e certamente potrebbe esserci Pietro dietro tutto questo. Di certo lui è sempre qui con me, io dico sempre che ho quattro figli, e mi batto e combatto per loro cercando di dare sempre il meglio di me”.

VINCERE PER “UNA ONLUS”

Roberto Andreoli ha corso in Namibia in memoria del piccolo Pietro, sua fonte di ispirazione. Roberto ha scelto di promuovere e sostenere i progetti di UNA Onlus, Associazione Genitori di Oncologia Pediatrica di Milano, che studia in particolare il neuroblastoma, il più frequente tumore solido in età pediatrica. Ogni anno in Italia si registrano circa 130-150 nuovi casi di questa malattia, che nei 2/3 dei casi evolve drammaticamente. È necessario identificare approcci terapeutici innovativi che possano essere affiancati alle terapie convenzionali, e tra essi vi è la immunoterapia. UNA, associazione fatta dai genitori per i genitori e i bambini, ha in cantiere un progetto di sviluppo della ricerca che richiede sostegno per 80mila euro. Di questi, la metà sono già stati raccolti. Con #Run106Pietro, a metà dicembre Roberto aveva raccolto una cifra pari a 19.613 euro, frutto di ben 327 donazioni. Entro il 31 gennaio vuole raggiungere quota 21.200.

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